Le poesie di Carlo

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Difficile spiegare a chi non lo conosceva chi era Carlo Talamo. Viene in aiuto una delle sue tante poesie scritte anche per fare pubblicità alle sue moto, ma soprattutto per raccontare. Raccontare cosa si prova ad essere un motociclista.

Nel 1995 viene pubblicato il volume "Mi piacciono le pecore. E molto le galline. Dieci anni di pubblicità Harley Davison), Numero Uno - Milano 1995" che raccoglie le poesie-pubblicità e anche piccole poesie e pensieri legati al mondo della motocicletta."

Un ringraziamento a RJing che ha pubblicato nel
forum Bonnie790 alcuni dei testi qui sotto riprodotti.
Un ringraziamento anche a Francesco che mi ha inviato qualche poesia via e-mail.







Io lo vedo dalle ombre della ruggine.
 Dal brillare che manca da troppo tempo.
 Lo vedo da tutto il nero che sta, sempre più nero,
 sotto al tuo motore.
 Io lo vedo che invecchi.
 Vedo l'olio che abbraccia lievemente tutto il lucido che avevi.
 Sento che ogni tanto sei stanca. Come me.
 Una ruga, un filo di grasso che ieri non c'era.
 Forse un pensiero. Che ieri era dolce ed oggi è come temporale.
 Non c'entrano gli anni. Non c'entra la fatica.
 C'entra quello che abbiamo visto.
 Il male che ci hanno fatto.
 Ma il sole torna sempre.
 E delle volte ti vedo bambina.
 Ti vedo come quel giorno, quando nascesti nella mia vita.
 Con i raggi che brillavano nel sole.
 

La vernice che scottava e toccarla era un piacere.
 Il motore incerto e pigro nei primi chilometri.
 Ne è passato di tempo e di strada.
 Ne abbiamo visto di mondo.
 Ne abbiamo avuto di freddo.
 E abbiamo riso.
 E una volta ti ho spinta per sei chilometri.
 E però ci siamo divertiti.
 E le rughe non le sento più.
 E quel fumo leggero che vien fuori dagli scarichi è senz'altro allegria.
 Non può essere olio.
 Ma poi ti guardo nel tappo e capisco che hai sete.
 Ho sete anch'io e siamo in un bar.
 Io dentro che bevo e tu fuori che stai lì.
 C'è una ragazza bionda che mi parla.
 Io intanto bevo.
 

E lei dice che mi conosce.
 E io penso che ho sete.
 E lei dice cosa fai dopo.
 E tu stai lì.
 E forse fa freddo.
 E più tardi torneremo a casa assieme.
 E guiderai tu.
 Piano, pianino, con quel suonaccio irriverente che fai tu.
 E la notte sarà più calda.
 Abitata dagli scoppi che si perdono chissà dove
 E dormiremo poi.
 Nel mio letto io.







Era nera.
 Come una locomotiva.
 E profumava d'olio.
 Di chilometri.
 Il calore che emanava lo potevi sentire a dieci passi.
 Fango e sporco testimoniavano di strade lontane.
 Io avevo otto anni. quella motocicletta, sola nel caldo
 di un pomeriggio di tanto tempo fa, quella motocicletta
 io non posso dimenticarla.
 La pelle delle vecchie borse doveva aver visto temporali,
 vento e lunghe giornate di sole.
 Vivevo allora in un paesino del sud dell'Italia.
 Motociclette ce n'erano poche.
 Di una Parilla mi ricordo. E di una Guzzi. Rossa.
 La vecchia motocicletta straniera che odorava di territori
 lontanissimi riempiva la piazza.
 Ed i miei occhi di bambino.
 Forza. Nei suoi grandi cilindri rigati d'olio.
 Solitudine. Nella sella di cuoio che non poteva ospitare passeggeri.
 Qualcuno, dietro di me, mormorò un nome. Con rispetto mi sembrò.
 Io non lo sapevo allora, ma quel nome avrebbe accompagnato la mia vita.
 È con me da tanto tempo.
 Mi vive accanto.
 Fortemente.
 Era l'estate del '59. In Calabria.
 Era una Harley-Davidson.
 Aveva attraversato l'oceano.
 E probabilmente la guerra.
 Un uomo traversò la piazza.
 Forse mi sorrise.
 E quando la polvere si dissolse dietro al profondo suono di quel vecchio motore,
 poche macchie d'olio sulla terra ricordavano dolcemente il suo passaggio.
 Un caldo odore di benzina mi circondò per un attimo.
 






C'è una strada.
Questa strada sta da qualche parte.
C'era luce, fino a poco tempo fa.
Ma ora è notte.
Piove.
Sulla strada, nessuno.
Forse, per molto tempo ancora, non passerà nessuno.
Accanto alla strada, sta una motocicletta.
Immobile.
La vernice è opaca di chilometri.
Lucida di pioggia.
La scena è vuota.
Oppure sembra.
Perché, a ben vedere, c'è un uomo.
Quest'uomo sta seduto sotto ad un albero, poco più in là.
E' tranquillo.
Quietamente beve qualcosa da un recipiente.
Potrebbe essere caffè.
Potrebbe essere birra.
Forse è soltanto un gesto.
L'uomo guarda la motocicletta.
Con gli occhi accarezza le ruote consumate, il motore, la parte scura dei grandi tubi di scarico.
La pioggia, poggiandosi sul metallo caldo, frigge dolcemente nel silenzio.
L'uomo si muove, ma impercettibilmente.
Forse, se potesse, toccherebbe quella vecchia motocicletta stanca.
Ma tra la sua mano e lei c'è il bosco.
E la quiete infinita di una notte d'inverno.
Nella vita dell'uomo e della motocicletta, ci sono state giornate di sole.
Molti chilometri, e odori forti di olio e di velocità.
E c'è stato un tempo colorato, quando le ragazze si fermavano a guardare.
A parlare.
Gli occhi dell'uomo, adesso, sono chiusi.
Delle ore, o magari molti anni, sono passati.
Adesso è notte.
Fa più freddo.
La strada è vuota.
In lontananza, assorbito dal bosco ma scandito nel freddo, si fa più lieve il suono di un rumore.
Da qualche parte sta una città.
E l'allegria.







Non desideravo molto, dalla vita.
Soltanto morire un pò meno scemo di come ero nato.
Un traguardo non troppo impegnativo.
Mi sono sforzato in questi ormai troppi anni.
Ho cercato di crescere.
Di sviluppare delle qualità minime.
Ho tentato tutto per evolvermi, modificarmi.
Ho letto libri ed ho viaggiato tanto.
Mi sono interrogato e ho interrogato gli altri.
Qualche volta, un pò di blu sull´orizzonte mi ha dato la speranza.
Ma poi, ma poi mi osservo meglio, guardo più profondamente in quel che sono e la verità torna a vincere sulla menzogna.
Non sono Cambiato.
Nulla è cambiato.
Morirò scemo così come sono nato.
Avevo due anni e correvo per la casa come una Formula Uno ubriaca urlando il rumore del motore e facendo il verso delle gomme che fischiavano quando giravo l´angolo del corridoio.
Avevo otto anni e dormivo con la bicicletta nel letto e la collezione di Dinky Toys sotto il cuscino.
A quattordici anni la scia d´olio che andava dalla porta di ingresso alla porta di camera mia faceva scoprire immediatamente a mia madre dove stava nascosto il motore dell´Italjet.
E adesso che a vele spiegate volo verso i miei quarant´anni, adesso capisco che nulla è cambiato.
Gioco come allora.
Con le stesse cose che mi appassionavano allora.
Ero più piccolo ed erano più piccoli i miei giochi.
Ecco, non sono cambiato.
Nè migliorato.
E forse è peggio di così: una volta per un compleanno, per Natale o per un dentino perso piovevano regali.
Adesso anche se appoggiassi tutta la dentiera sul balcone nessun topolino pagherebbe le rate dell´ultimo gioco.








(Questa è una delle poesie preferite da Carlo)

C´e una linea precisa.

Cosi´ netta.
Che divide la citta´ dal Mondo.
Questa linea non ha un nome.
Nessuno l´ha disegnata mai.
Nessuno puo´ vederla.
Chi sta dentro un´automobile non puo´ conoscerla.
E io pero´ la conosco bene.
E la riconosco.
Tutte le volte che vado piu´ in la´.
Quando, con la moto, lascio la citta´
di notte per andare a vedere cosa c´e´ oltre.
E l´aria si fa piu´ fredda.
Umida.
E appaiono i profumi. Profumi che non so dire, che attraversano l´universo davanti al mio naso.
E mi avvolgono in un mondo piu´ tranquillo.
Nel quale entro sereno, guidato dalla luce innocente del mio piccolo faro.
La linea adesso e´ lontana.
I chilometri si arrotolano pigramente nell´orologione illuminato appena.
La lancetta si muove,
oscilla ed indica una velocita´ come indecisa.
Ma fuori dalla linea la velocita´ non conta piu´. Nessuno ha fretta.
Nessuno aspetta.
Con gli occhi,distrattamente,seguo un pensiero.







Succede così.
Succede molto spesso.
Che il mondo diventi scuro.
E le giornate di ferro.
Io me ne frego.
Io c'ho la moto.
Che è bassa.
Con le cromature.
Nerissima.
Che con le vibrazioni ci sposto la dentiera a quella del quarto piano.
Io con la mia moto ci vado a spasso.
Da solo.
Non guardo nessuno.
Soltanto quello che stà oltre la strada.
Mi piaccion le pecore.
E molto le galline.
I contadini nei campi.
E se vedo le margherite tiro su forte col naso.
Spesso non sento nulla.
A volte mi aspiro un moscerino.
Quando ci son le curve guardo l'asfalto e le sue buche.
Il suo colore.
E quando piove tiro due bestemmie e poi penso che non importa.
E dopo sull'autostrada mentre me ne torno a casa,mi allungo sulla sella e godo il suono di sto motorone che gira basso.
E spinge forte,come quando mio padre mi prendeva a calci.
Il mondo è dolce stasera.
La vita è bella stasera.
La città la attraverso a zigozago per fare più lunga la strada del ritorno.







Ma c'è ancora un pò d'amore.
Un pò di quel caldo ricordo di pomeriggi passati
ad ascoltare il battito di un motore.
E' rimasto un lieve attimo che ancora scalda il cuore
con un dolce profumo d'olio.
Un brivido sottile,agitato appena
da una vibrazione.
Un suono cupo che scuote e non disturba.
Qualcosa c'è ancora di quelle domeniche spese
a guardare l'asfalto scorrere lento
sotto le ruote.
Un pò di passione è rimasta ancora
in questo mondo
di motori senz'anima e senza carburatori,
con più valvole che centimetri cubici.
Qualcosa,oh si qualcosa è rimasto e stà di casa qui da noi.
In questa Factory fatta da gente
che con i motori vive.
Come tanto tempo fà.
Quando le cose si facevano con orgoglio.
Quando ci si sentiva bene.
Quando era molto bello giocare con testate
e marmitte e gente che amava tutto questo.
C'è ancora questa gente e ci sono ancora questi motori.
Gente con il cuore e la passione.
E motori con pistoni da camion
e valvole che si schiudono spinte fortemente
da bilanceri che accompagnano la storia
del bicilindrico più vecchio del mondo.







Forse è un incantesimo.
Forse m'hanno fatto la fattura.
Forse devo andare dal medico.
Forse lo trovo bravo.Il medico.
Forse mi guarisce.
Forse torno ad apprezzare la vita.
Forse capisco finalmente che il mondo corre avanti.
Forse scopro che non ci si può rintanare tra le braccia di tre quintali
di ferro e saldature.
Forse mi evolvo e mi intelligentisco un poco.
Forse lo faccio per davvero.
Forse lo faccio già domani.
Forse,invece me ne frego.
E continuo così.
A scuotere il culo su stò telaio senza sospensioni.
A godere di quanto sei nera.
A sbattermene di quelli che ti prendono in giro.
Che prendono in giro anche mè.
Continuerò a parlarti aspettando le tue risposte.
E continuerò a dirlo sapendo che nessuno mi crede.
Me ne fregherò di sembrare scemo o furbo.
E' il momento di essere chiari.Come sei chiara tu.
Credo sia il momento di tirare fuori quel che si è.
Anche se non piace.
Anche se convince solo pochi.
Me ne frego.
Me ne frego del target,delle masse, dei numeri,dei "pezzi" da vendere.
Io sono stupido.
Continuo a chiamarle persone.Continuo a chiamarle Motociclette.
Perchè a me le persone piacciono.
Perchè a me le motociclette piacciono.
Come mi piaci tu.Che sei così nera.
Che t'ho raccattata da sotto un camion tutta pesta dopo un incidente.
E non t'ho buttata via.Non t'ho venduta a pezzi.E non ti vendo
neanche adesso.
Sto assieme a te.
Me ne vado in giro per i viali di periferia quando fa buio.
E guardo i palazzoni con le finestre illuminate.
E sento le buche di questa città.
E penso che c'è qualcuno che crede in quel che dico.
E penso che mi sento meno solo.
Eppoi smetto di pensare perchè è tardi.
Fa freddo.
Sono in riserva.
L'inverno è cominciato.
Domani ti scalderò più a lungo prima di uscire.







A volte i ricordi scolorano nella mente.
Sarà il tempo che è passato.
Sarà un pò di malinconia che m'accompagna.
Chiudo gli occhi più forte e penso a te.
Rossa.
Eri rossa.
Con quel cilindro sabbiato.
E il tubozzo di scarico corto e cromato.
Una emozione che non tornerà.
Il mio primo giorno con te quando avevo pochi anni.
Le valvole che picchiettavano.
E gli scoppi innocenti del tuo pistone.
Come un cucciolo che abbaia.
Quattro tempi avevi.Proprio come le moto vere.
Ed io mi svegliavo la notte e correvo nella
rimessa a vedere che fossi sempre lì.
Avevo paura per te.
Avevo paura di tutto.
Ma quando correvamo verso il fiume,
sulle curve della statale,
mi sentivo grande.
Io non avevo più paura.
Il contachilometri segnava gli ottanta.
Le tue ruotine sottili giravano.
Velocissime.
I raggi brillavano nella luce.
E come era bello.
E come stavamo bene insieme.
Per ore a guardare il fiume che scorreva calmo.
E la vernice si scaldava al sole del tramonto.
La luce debole del tuo piccolo fanale illuminava
l'asfalto della notte.
Tornavamo a casa dolcemente.
Io ti pulivo un pò,prima di lasciarti sul cavalletto.
Con un sospiro chiedevo che venisse presto domani.







Quest'estate ce ne andiamo via.
Io e Te.
motorona mia.
Se ti dovessi dire quanti pezzi stanno dentro sto motore.
Non te lo saprei dire.
Ti posso dire quanti ombrelloni ci sono sulla spiaggia.
Quanta gente felice comprerà il gelato.
Oggi ho fatto mille chilometri.
C'erano un milione di cartelli.
Non ne ricordo uno.
Vibravo troppo per vederli.
Ci sarà una strada.
L'asfalto come cartavetra.
Se il sole s'abbassa laggiù,stringo forte il motore tra i piedi.
E c'ho più caldo.
Ad ogni incrocio ho girato verso il mare.
E adesso è tutto blù.
Qualche volta mi serve di star solo.
Più lontano sulla costa ci sono luci.
Tremano al vento.
Se ci sono le campane non le ho sentite.
Tutti i vizi del mondo stanno in un fiasco di vino.
In tutto sto ferro che mi porto dietro.
Oggi me ne vado via.
Non torno più.
A cent'allora.
O poco su..
Forse fa freddo e forse manchi tu.
Stò nascosto dietro a questo vino.
E il mondo mi sembra molto buono.
Il suono che sento viene da lontano.
Molto rumore e molto vento.
Molta gente e tanta compagnia.
Una chitarra suona nella testa.
Un sacco di stelle parlano a me.
Ma che m'importa se sei cattiva.
Un lampo attraversa il cielo.
Forse domani non pioverà.
Aspettami qui che adesso dormo.
Aspettami forte.
Domani andiamo via.







Molto spazio.
Molto freddo.
Molto bello.
Forse perchè è inverno.
perchè in giro c'è nessuno.
perchè la luna non è mai stata così chiara.
E il freddo così pulito.
La strada che scavalca le montagne specchia in modo innaturale
il bianco della neve che mi tiene compagnia.
Vado.
Vado in giro di notte.
Scappo da una città che fa troppo rumore.
Posti affollati dove mi sento straniero.
Scappo solo.
Assieme agli scoppi del motore.
Che stanotte paiono più nitidi.
Ancora più dolci.
Nel ghiaccio di solitudine che circonda la valle stò al caldo.
E sereno.
Finalmente.
Le mani perdute nel profondo dei buffi coprimani pelosi.
La pancia coperta da cento chili di lana.
Penso che mi piace tanto.
Penso che vorrei avere più tempo.
E mano gente che spinge e grida.
La faccia brucia e gli occhi si difendono con qualche lacrima chiara.
che va a perdersi chissadove.
I tornanti della strada hanno il fondo di lucide pietre scivolose.
Lontano,lucine che brillano,indicano un posto piccolino
dove la gente stà dormendo.
Sogno che tutta l'aria del mondo sia così brillante.
Sogno che persone limpide e forti tornino a vivere
nella citta dalla quale sempre più spesso vado via.
Sogno di incontrare occhi scuri e amici.
Sogno di vivere un tempo tranquillo.
E il suono di questo vecchio motore.
Sogno una notte come stanotte.







Ogni tanto entri in quella parte di mondo che io sto guardando.
E tutto s'accende.
Di luce,di brillare,di voce che avvolge.
Ed ogni volta mi dico che sei soltanto una motocicletta.
Come te n'ho viste tante.
Che cento anni assieme a te dovrebbero avermi stancato.
Od almeno abituato.
E però non riesco.
Mi distraggo dal resto della scena ed i miei occhi stanno su dite.
Che sei lì.Fredda e distante per chi non sà guardare.
Calda e vibrante per chi ti conosce così bene.
Per chi se ne frega che capiscano anche gli altri.
Che di te parlano male.Che di notte ti sognano.
Tu sei così tranquilla.
Forse saranno sti novant'anni che c'hai.
Forse perchè ne hai viste tante.
Forse che hai capito che t'arrangerai a vivere e sarai
ancora qui quando tutti quelli che ridono di te se ne saranno andati.
Mah.Io ti voglio bene così come sei.
Non vivo per te.Vivo con te.
Da tanto tempo,sono abituato ai tuoi difetti e ai tuoi capricci.
Da cent'anni sopporto gli scherzi e la malattie
immaginarie che tanto inquietano chi non ti conosce.
Sto qui.Sto con te.Me ne vado a spasso con te.
Traffico con tutti quei pezzi che hai.
E mi diverto.E vibro. E vivo.







Ci sono vicoli.
intricati.Oscuri.
Forse con l'asfalto rovinato da milioni di ruote.
E passi frettolosi.Spaventati.
Ci sono vicoli bui che esplodono su vie modernissime.
Acciao.
Giganteschi tubi metallici che trasportano aria da un cielo infuocato.
giù,giù in un mondo misterioso dove non c'è luce.
Ma un buio senza fine.
Ci sono spazi immensi.
Cromature e tagli di sole violento.
Un calore immane copre questa città di ferro.
Un disperato,ordinato sistema di vita.
Che di vita si tratta.
Un rombo profondo sale da non so dove.
Come una voce.Come un terremoto..Come paura.
Sento un mondo incerto vibrare da distanze lontanissime.
Forse non c'è futuro qui giù.
Ma c'è qualcosa che non muore.
Un fiume d'olio denso attraversa in un attimo il cuore della città.
Avvolgendo il metallo e le sue grida.
C'è silenzio intorno adesso.Quiete.
E benzina.
Scoppi sordi.Contenuti appena da mura generose.
Forse c'è follia.E ribellione.
Perso d'amore giro questa città di metallo.
Fuori dal tempo.
Vecchia.
Così bella.
Nel labirinto di tubi e cilindri e pazzia cerco un senso.
Vorrei vedere.
Capire.
Perchè ho trovato amore,una vita,
milioni di persone smarrite in questo motore.
Che pare una città.
Che senz'altro lo è.
Potrei uscirne.Ma non voglio.







Oh per Giove!
Una sera di queste,ci scommetto,comincerà a parlare.
Non sò perchè ma sento che sarà così.
Che devo dire,forse perchè quando la posteggio mi pare che col faro
segue i miei movimenti.
Sarà che quando si raffredda scricchiola come un veccio pavimento
di assi minato dai tarli. O più semplicemente perchè sulla sua sella
c'ho lasciato tanto culo.
Forse siamo una cosa sola.
Forse siamo tanto soli.
Eppure quando andiamo a spasso lei grugnisce e starnuta,
vibra e si contorce,a me pare che voglia dirmi qualcosa.
O magari è soltanto carburazione.
Ed io sono scemo.Come quei padri un pò rimbecilliti davanti al
marmocchio che mugola versi squilibrati e loro col sorriso da ebete:Hai sentito?hai sentito ha detto che mi vuole tanto bene,che carino,che carino,il mio picciiiino.."
Beh,forse sono anch'io così.
Ma non sono rimbecillito,devo essere stato sempre imbecille perchè da mille anni sono su questi vecchi motori e da sempre ho saputo che un giorno,uno di loro,avrebbe cominciato a parlare.
Dapprima piccole frasi.."buono l'olio oggi" e poi sempre più sciolto e padrone della parola:"Come và?Dove andiamo oggi?Hai intenzione di portarmi su quella strada piena di curve e buche a fare il cretino coi miei freni e la mia frizione?"E ancora.."Stà attento pezzo d'idiota..non vedi che non azzecchi una marcia giusta?".
Beh..forse sarebbe meglio continuare tutto come ora.Con me che ti guardo proprio nel fanale e aspetto che tu parli e tu che te ne stai sul cavalletto zitta zitta protestando soltanto con qualche cigolio quando ti fuorigiro durante un sorpasso inutile.
Si, penso che sia meglio così.
Le motociclette in fondo sono solo motociclette.Ed io lo so.Però stasera faceva freddo in garage ed io t'ho coperta bene bene perchè tu stessi calda.E quando ho chiuso la luce t'ho detto buonanotte.






A te ti avevo già vista.
Correvi su strade polverose.
Con la gente assiepata attorno.
Facce ingenue e tant'allegrezza.
Strade di un'Italia che non c'è più.
Facce che fatico a trovare ancora.
Ci morivo accanto a te.
Specchiavo la mia faccia di bambino in cromature
che parevano accecarmi.
M'incantavo al suono calmo e onesto del tuo motore.
Io non lo sapevo che avevi gli alberi in testa.
Io ti volevo bene così.Senza quasi conoscerti.
Spargevi olio dappertutto e la gente diceva
che era normale,che era così.
Quel sapore caldo di vernice e freni ammazzati di fatica.
mi avvolgeva come un abbraccio amico.
Mio padre non capiva,mia madre sorrideva.
Io correvo a piedi nudi sulla strada che
andava alla montagna per vedere i corridori.
La strada era vuota,poi come un terremoto e la gente
si scostava impaurita:un corridore appariva sulla curva
con gli occhi nascosti dietro lenti annerite dai chilometri.
Chissà quante belle motociclette ho visto passare
sulla piccola stradina accanto al paese.

Ma oggi qualcuna di voi è qui.In questa bella giornata di festa.
Su questa bella pista d'asfalto.
In questo mondo di oggi che vi ha messo in disparte.
Che ha preteso da voi regole e fanali.Frecce e silenziatori.
E voi,io lo so,non potevate piegarvi.
Chissà dove avete vissuto per tutto questo tempo.
Forse in un garage a sentir la vita correre lontana.
Ma oggi siete qui.E mamma mia che belle che siete.
Profumate e cromate.Verniciate.
Ah,e non siete qui in patetica mostra per un mondo che ride di voi.
Ah no,io vi vedo correre e frenare.Qualche volta saltare sui cordoli
e qualche volta tirare dritto con i freni esausti.
Epperò vi vedo fiere.Lucenti.
Vi vedo ringhiare e scoppiettare.Mostrare allegria e velocità.
Che bella giornata passata con voi.
Io vi voglio tanto bene.
Perchè fate fatica per stare in questo mondo di gente tutta uguale.
Perchè i vostri vecchi motori vibrano,parlano e si ribellano.
E voglio bene alle facce che vi accompagnano.
Che sembrano facce che non ci sono più.Entusiasmo e ingenuità.







Cominciai a parlare che avevo tre anni.
Beh,si,un pò in ritardo.
E non dissi" mamma".
"Bruuummm"dissi.
Allora chiamarono il medico.
Mia madre pianse.
Mio padre pensò che ero scemo.
Forse me lo disse.E ci accompagnò due sberle.
A me importava poco di parlare.
Mi piacevano i motori.
Abitavo in campagna.
E mi piaceva il trattore,un Ford azzurro,che era vecchio vecchio
e faceva pum pum pum pum quando andava.
A me venivano i brividi.
Ci sono cresciuto coi motori nel cuore.
E più sono grandi,più sono forti,più gli voglio bene.
Al tempo della scuola non studiavo.Disegnavo però.
Cilindri,carburatori e marmitte strampalate.
Mio padre era ormai sicuro che ero scemo.
"Non farai mai niente nella vita" mi diceva.
E mi ammollava un paio di sberloni che servivano secondo lui,
a liberare il meccanismo inceppato della mia idiozia.
Io me ne fregavo.
Ogni giorno di più mi appassionavo
all'odore d'olio della vicina autorimessa.
Tanti motori mi hanno fatto vibrare le ossa.
Io li ho amati.E smontati.E maledetti.
E ho continuato.
E continuo oggi.
Che vivo insieme al più vecchio motore motociclistico del mondo.
Vivo nel profumo di pistoni grandi come fiaschi.
Mi incanto al suono di valvole che paiono tegami.
Mio padre pensa sempre che sono scemo ma non mi rifila più ceffoni.
Perchè abitiamo lontani.
Adesso stò a Milano
In questa factory che da sei anni importa,vende,modifica
e aggiusta le Harley-Davidson in Italia.
Stò a Milano.
E gioco tutti i giorni.
Ma non faccio più Bruuumm..
Non ad alta voce per lo meno.







A volte i ricordi scolorano nella mente.
Sarà il tempo che è passato.
Sarà un pò di malinconia che m'accompagna.
Chiudo gli occhi più forte e penso a te.
Rossa.
Eri rossa.
Con quel cilindro sabbiato.
E il tubozzo di scarico corto e cromato.
Una emozione che non tornerà.
Il mio primo giorno con te quando avevo pochi anni.
Le valvole che picchiettavano.
E gli scoppi innocenti del tuo pistone.
Come un cucciolo che abbaia.
Quattro tempi avevi.Proprio come le moto vere.
Ed io mi svegliavo la notte e correvo nella
rimessa a vedere che fossi sempre lì.
Avevo paura per te.
Avevo paura di tutto.
Ma quando correvamo verso il fiume,
sulle curve della statale,
mi sentivo grande.
Io non avevo più paura.
Il contachilometri segnava gli ottanta.
Le tue ruotine sottili giravano.
Velocissime.
I raggi brillavano nella luce.
E come era bello.
E come stavamo bene insieme.
Per ore a guardare il fiume che scorreva calmo.
E la vernice si scaldava al sole del tramonto.
La luce debole del tuo piccolo fanale illuminava
l'asfalto della notte.
Tornavamo a casa dolcemente.
Io ti pulivo un pò,prima di lasciarti sul cavalletto.
Con un sospiro chiedevo che venisse presto domani.





Quando c'avevo quindici anni e a rivoltarmi non
mettevo insieme un cinquemila
m'ero messo in mente che era giunto il momento di
una Harley.
"Ahbbè" mi dissi "Si vive una volta sola".
"Eppoi co'na moto così, vedrai le sbarbine".

Eggià, oltre che non c'avevo una lira,
che ero un pò ritardato
e che pesavo quaranta chili,
stavo messo a schifo a donne.
Cosa leggera leggera, dovuta non tanto al deserto
della mia intelligenza
quanto al disprezzo per il sapone.
Non è che c'avessi li pidocchi, però ero coperto
da uno strato di grasso e morchia figlio delle tante
volte che avevo smontato
e rimontato la Gilera.

Ne andavo orgoglioso della mia Gilera.
Bei tempi.
Mi diminuivo gli anni allora: tutti dicevano
"Però er Carletto è forte n'sacco
(Si si abitavo a Roma)
p'aavecce sortanto undici anni".
E di fatti p'aavecce undici ero forte,ma siccome
andavo per i sedici
dovevo essere un pò indietro in tabella.

Adesso non è più così, adesso me li aggiungo gli anni:
dico che ne ho quarantacinque e tutti a farmi i
complimenti, e
"Come te li porti bene e sembri un ragazzino" e
gridolini.
Lo credo che me li porto bene ne ho otto in meno!

Però qualche sera fa quando ho dichiarato la mia età
(aumento 20%) nessuno ha gridolinato meraviglia.
Ho sentito solo un vago "Eh gia".
Da tre giorni vado guardando le pubblicità dei
parrucchini e ho comprato i pantaloncini corti con i bottoni e le
galosce gialle.

Giusto per rinfrescarmi un pò.
Ma questa è un'altra storia.
Ero rimasto alla mia Gilera.

E all'Harley che rimase un sogno doloroso per molto
tempo ancora. Costava otto milioni contro
le seicento mila di una utilitaria.
Tanti soldi e tanti lividi
per via delle borsettate che mi diede
mammà quando le chiesi
"Sai solo un piccolo prestito, naturalmente restituirò
tutto. Come sempre!"

Ancora massacrato reagii al dolore verniciando il
casco a stelle e strisce come Peter Fonda e
poi saldai uno schienale esagerato dietro alla Gilera
e gli costruii un manubrio che neanche c'arrivavo.

Poi coi risparmi di una vita comprai un serbatoio
dell'Harley con tanto di adesivi e mi sentivo più bello di un
americano.

Mia madre vide l'Harley che però era una Gilera che
c'aveva un libretto che sembrava 'na pagina gialla e mi riempì ancora di
botte urlandomi

"Ladro dove li hai rubati otto milioni per comprare
l'Harley". "Mamma è una Gil..." "Zitto porco li avrai rubati
dalla mia borsa" "Ma mamma è una Gile..."
E ancora botte e borsettate.

Sono passati vent' anni, ma quando mia madre
guarda la Numero Uno e le centinaia di Harley Davidson colorate
che stan di casa qui fà come per alzare le mani e poi stringe la borsa
con più forza e ancora non è convinta che siano tutte Gilere."



Il primo orologio me lo regalò il babbo
che avevo sei anni.
Unicum si chiamava. A me pareva bello. Io ero piccolo.
Aveva le lancette dorate e la cassa di latta. Funzionava.
Io lo attaccavo alle orecchie e lui faceva Tic-Tac.
Mica sempre però.Qualche volta faceva Tic.
Poi stava a pensarci un momento. Poi faceva Tac.
E se magnava un'ora al giorno.
Imparai pure a leggere le ore.

E molto fiero davo appuntamenti a tutti.
"Allora per il bagno ci vediamo alle sei" dicevo alla
balia.
"Beh di questo parleremo alle tre e venti"
rispondevo a mia madre.
"Potremo giocare al dottore alle quattro e dieci"
mormoravo alla bambina coi capelli rossi.

Oh boia. Manco un appuntamento mi riusciva
d'indovinare.
Quando arrivavo io la balia era andata a dormire,
mia madre era uscita e la bambina coi capelli rossi
era andata via col Beppino
che c'aveva sette anni e gli occhiali spessi.
Odioso.

Io presi l'Unicum e lo feci a pezzi. Coscienziosamente.
Lo smontai tutto. Spostai dei pezzi. Lo rimontai.
Avanzò qualcosa. Lo nascosi.
Chiesi a mio padre un orologio nuovo che arrivò
qualche mese dopo.
Un altro schifo. Smontai anche quello.

Poi, era ora, arrivò un cronometro.
Si chiamava Universal Geneve.
Una cosa da signori.
Però, sarà che la balia s'era licenziata, sarà che mia
madre manco
mi rispondeva più, sarà che la bambina coi capelli rossi
s'era fidanzata col Beppino , io smontai anche il
cronometro.

Pensavo che fosse una cosa da bambini. Smontare le cose.
Invece no.Il mondo è diviso in due: quelli che smontano
gli orologi e quelli che no. Io smontavo. Smonto ancora.
Smonto tutto.

Perchè mi piace capire che ci sta nelle cose.
Potessi, smonterei anche le persone.
Ma le persone non si lasciano smontare.

Gli orologi li fanno elettronici. Io smonto l'Harley.
La smonto. Mi svuncio d'olio. Faccio viscido tutto il
garagino. Poi la rimonto. Qualche volta avanza qualche tocco.
Qualche volta la porto alla Numero Uno a rimontarla
e lì mi strillano come strillava mio padre.

Non ho smesso di smontare. Non smetterò mai
Non voglio smettere. Voglio crescere e capire.
Mi piace essere libero.

Il Beppino c'ha quarant'anni e s'è sposato.
Con la bambina coi capelli rossi che s'è tinta i capelli
e sta un cesso. C'ha du mostri di figli. E la Prinz.
Io me ne vado a spasso.Vibrando e smontando.
Fermo su un lato di una strada abbandonata mi
riavvito qualche bullone.

Il sole tramonta in lontananza.
Sono sereno e felice.
Penso a Beppino.
Poveraccio.





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