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G I O V A N N I     D E     A N G E L I S     e     N U M E R O     U N O





Molti pensano che la storia della Numero Uno sia la storia delle Harley- Davidson in Italia.

Anche, ma la vera storia è stata fatta da chi ci ha lavorato, ed ha accompagnato Carlo Talamo nella sua straordinaria avventura.

Uno di questi, molto importante, è stato senza dubbio GIOVANNI.




Davanti alla sede della Numero Uno di Arese. Da sinistra Giovanni de Angelis,
Lamberto Cattaneo e Roberto Fasolini. Sotto Elena Meneghetti.




Giovanni De Angelis - Il ricordo di Marco Marchisio - 25 febbraio 2017


Quando iniziai a lavorare alla Numero Uno, all’inizio del 1991, il ragionier Giovanni De Angelis c’era già, non so da quanto tempo, ed era saldamente il “numero due” di quella allora ancora piccola ed incasinata aziendina che Carlo aveva ideato, ma che faticava a gestire.

È sottinteso che l’indiscusso “numero uno”, il capo, il “padrone” come riportava sui suoi provocatori biglietti da visita, era Carlo, ma Giovanni era importante perché era il responsabile amministrativo e finanziario: era cioè quello che aveva in mano la cassa ed i conti, si occupava delle incombenze fiscali e di tutte le menate burocratiche che la gestione di un’azienda comporta.

Quando Carlo mi presentò a Giovanni, nel mio primo giorno di lavoro, ebbi l’impressione che mi avesse portato allo zoo, e mi stesse presentando un orso; ma non un buon orso marsicano, di quelli che ogni tanto in Abruzzo fan fuori una vecchia pecora in modo che il giornale locale possa titolare in prima pagina “L’ORSO FA UNA NUOVA VITTIMA!” impressionando i turisti che sciamano nel Parco durante le vacanze. No, Giovanni non era un bonario Yoghi; Giovanni era un vero grizzly, ferocissimo e sempre incazzatissimo, in grado di afferrare al volo tutti i salmoni che risalgono i fiumi del Canada e svuotarli, che ruggiva con uno spiccatissimo accento bergamasco.

Avvolto in una perenne nuvola di fumo, emanante un fortissimo odore di tabacco e sigaretta combusta, mi strinse la mano con la sua, gialla di nicotina fino al polso (ma se si fosse rimboccato la manica, il giallonicotina sono certo arrivava almeno fino al gomito)

Io, che fino al giorno prima avevo lavorato in un’azienda tradizionale, indossavo, come da regolamento ancora giacca e cravatta, fui particolarmente colpito dall’abbigliamento del direttore amministrativo: portava un paio di jeans con vistosi strappi sulle ginocchia ed una felpa di un anonimo grigio lunga fin quasi alle cosce, e sopra uno striminzito gilè di pelle. Non ero ancora entrato nell’atmosfera molto casual che pervadeva la Numero Uno, ma presto ne ebbi la panoramica completa: Carlo, il, capo, indossava dei jeans colorati, il classico gilerino Harley sopra una camicia a scacchi ed ai piedi le famose Superga bianche senza calze; Lamberto, il venditore col codino e barbetta ricordava in domatore di circo Barnum old America, quasi un fratello di Buffalo Bill, con stivali pitonati a punta, jeans attillati, un gilet di pelle con le frange; i commessi ed i magazzinieri normali jeans con il tradizionale gilerino Harley, e, dulcis in fundo, i meccanici con la loro linda tuta nero/arancione.

Giovanni però era il più trascurato e trasandato di tutti, e mi diede l’impressione che se un rapinatore avesse voluto depredare i ragazzi della Numero Uno, li avrebbe ripuliti tutti, tranne Giovanni; anzi, forse impietosito, gli avrebbe mollato qualche spicciolo per la sua aria cupa e dimessa, e per farlo soprattutto sorridere.

     Alura…?!  - chiese Giovanni a Carlo – che fa questo qui?  - accennando torvo a me, novello intruso nel cast della Numero Uno.

Carlo illustrò brevemente quello che si aspettava da me e mi portò via, per presentarmi a tutti gli altri, da Alberto a Maurizio, da Lamberto a Marzia, da Toto a Roberto, da Livia a Carl Armstrong, (Elena al centralino la conoscevo già) ed altri che ora non rammento, mentre Giovanni seguito, o preceduto, dalla sua nuvola di fumo, si recava nel suo ufficio amministrativo situato sopra il negozio ricambi, all’angolo tra via Fioravanti e via Niccolini.

Dal giorno del mio ingresso in Numero Uno mi capitava al mattino di incontrare Giovanni di ritorno da qualche banca o dall’ufficio del nostro commercialista, oppure il pomeriggio accompagnato da Roberto (Fasolini) che lo seguiva come un’ombra, ai margini delle volute di fumo che lo circondavano come gli anelli di Saturno.  Al mio saluto (mai capitò che fosse lui ad accennarne uno) rispondeva con un grugnito, senza mai fermarsi, con gli occhi bassi, quasi stesse cercando qualcosa sul selciato, infastidito che qualcuno l’avesse disturbato e tolto dai suoi imponderabili pensieri.

Dopo qualche tempo, quando avevo cominciato ad orientarmi nella complicata topografia dei negozi, dei garage, delle officine e dei magazzini della Numero Uno, diffusi tra le case di via Fioravanti e via Niccolini, ad avevo cominciato a familiarizzare con tutti i ragazzi (e le ragazze) dello staff, ebbi modo una volta di chiedere a Carlo:

        - Ma che tipo è Giovanni? Non sono ancora riuscito a fermarlo una volta o a parlargli…

        - Non ti preoccupare – mi rispose – Giovanni è un bravissimo ragazzo… gran lavoratore, onesto, capace… sì, un po’
        taciturno ed asociale, ma il suo mestiere lo sa far bene. Per me è indispensabile, è una sicurezza… non preoccuparti,
        diventerete sicuramente amici.

Nell’anno che passai a Milano, prima di trasferirmi con altri colleghi nei nuovi uffici di Arese, riuscii solo un paio di volte a parlare con Giovanni (e così potei scoprire che nel suo ufficio lavoravano, oltre a Roberto, anche Marina, ancora più discreta ed invisibile di lui) e fu per illustrargli la nuova procedura degli acquisti, che prevedeva che non avrebbe dovuto pagare più nessuna fattura che non fosse preceduta da un odine scritto e da me firmato.

Nella tradizione naïve, molto spontanea e sburocratizzata in atto allora nella Numero Uno, vigeva infatti la consuetudine per cui, chi aveva bisogno di qualcosa, se lo procurava; dopo qualche giorno arrivava in Amministrazione la fattura, che normalmente prevedeva un pagamento a vista, e Giovanni, ligio agli ordini di Carlo che pretendeva di non accumulare debiti con i fornitori per dimostrare all’esterno che la sua azienda era dinamica e solvibile, pagava.




Giovanni con i suoi jeans strappati



Faccio un esempio che vale per tutti. La Wurth, era la fornitrice di tutto quanto veniva utilizzato nelle officine, dagli utensili alla minuteria, dai rotoloni di carta alla pasta lavamani. Bene, l’agente della Wurth andava una volta alla settimana nelle due officine, (quella addetta alla preconsegna delle moto e quella addetta alle riparazioni) ed ogni meccanico si ordinava quello di cui aveva bisogno (o pensava gli potesse servire durante la settimana). Gli serviva una chiave (in pollici) che non trovava più nel suo carrello degli attrezzi? La ordinava; gli serviva una serie di bulloni, dadi, rondelle cromati per montare gli accessori? Gli serviva una bomboletta di svitol? Li ordinava.

Ma, lo stile di fornitura della Wurth (lo conoscevo, per aver avuto modo in precedenza di lavorare con loro) era: “nel nostro catalogo di chiavi in pollici, non c’è la chiave singola, ma la confezione che le contiene tutte.” Quindi ne ordinavi una, e te ne arrivavala confezione che ne conteneva una dozzina. Ti servono i dadi cromati col passo in pollici (non facili a trovarsi)? Li abbiamo, ma li vendiamo solo in confezioni da 500 pezzi. Ti serve un trapano? Certo, ti forniamo il miglior trapano tedesco sul mercato, senza dire che nella scatola del trapano erano comprese anche le confezioni di punte per metallo, legno e muratura, in grado di fare fori da 1 a 50 millimetri; ti serve una bomboletta di svitol? Te ne arrivano 12… e così via. Il tutto a prezzi di listino fotocopiati da quelli di Bulgari o Cartier.

Giovanni riceveva quindi ogni settimana fatture Wurth, se non milionarie, comunque dell’importo di diverse centinaia di migliaia di lire.

Che poi, ciò che era elencato in fattura, corrispondesse effettivamente a ciò che era stato consegnato in officina, nessuno lo sapeva, perché nessuno controllava. Ai meccanici le scartoffie cartacee davano fastidio (e poi le potevano sporcare con le mani unte), e nessuno dell’amministrazione sarebbe mai sceso in officina a contare le scatole dei dadi o dei bulloni. Così andava avanti da chissà quanto tempo.

Mi resi subito conto di questa pratica piuttosto “creativa” nel momento stesso in cui presi posto nel mio ufficio.

Livia (Diegoli) la grafica, che lavorava nel mio stesso ambiente, andò in una cartoleria di via Paolo Sarpi, e mi comprò tutto quello che, secondo lei, poteva servirmi per espletare il mio lavoro: sovra scrittoio, penne biro, matite, temperino, portapenne, righello, nastro adesivo, post it di tutte le dimensioni, graffette, spillatrice… ecc.). Poi andò da Giovanni con lo scontrino della cartoleria e tornò a pagare in contanti tutto quello che aveva acquistato.

Quando chiesi a Livia: - Ma voi fate così…? Mi rispose che: - sì, si fa così. L’ha detto Carlo!

“L’ha detto Carlo” era praticamente la parola magica, “l’apriti Sesamo” che faceva da viatico a qualunque cosa si facesse in Numero Uno; se Carlo aveva detto di fare qualcosa, quel qualcosa andava fatto, anche se (ahimè) poteva qualche volta cozzare contro il buon senso.

Quando ebbi modo di intrattenere Carlo sulla non professionalità di questa procedura, che lui aveva consentito “per non perdere tempo”, per fargli capire quanto era pericoloso quel modo di operare, gli feci questo esempio, un po’ tirato per i capelli, ma comunque abbastanza significativo: “se io ho bisogno di un nuovo televisore per casa mia, lo compro, faccio intestare la fattura alla Numero Uno, e me lo porto via. Se Giovanni mi chiede qualcosa (ammesso che voglia parlarmi insieme), gli rispondo che “l’ha detto Carlo”, e tutto finisce lì. Al massimo volge gli occhi al cielo, chiedendosi perché mai hai fatto comprare un altro televisore, emette un paio di sbuffi di fumo e paga la fattura. Io mi tengo il televisore che hai pagato tu, e se vedo che la cosa funziona, poi mi compro in seguito un videoregistratore, poi lo stereo….

Carlo divenne terreo, e mi nominò seduta stante responsabile di tutti gli acquisti, ordinando che nulla entrasse più in Numero Uno senza un ordine scritto e da me firmato (si riservò di siglare ordini di notevole importo, ma non esercitò mai quella opzione).

Così andai da tutti i colleghi e spiegai che da quel momento in poi nessuno avrebbe più potuto ordinare o procurarsi nulla, ma sarebbe dovuto venire da me segnalandomi ciò di cui avesse avuto bisogno: fosse uno spillo, un classificatore o un compressore l’avrei dovuto sapere; non solo: nessuno avrebbe più potuto chiamare un elettricista per cambiare una lampadina o un idraulico per sturare un lavandino; anche in questo caso avrei selezionato il fornitore che avrebbe dovuto rispondere a me dell’intervento.

Io avrei provveduto a verificare il prezzo dello spillo e se questo era esattamente quello di cui aveva bisogno il collega che l’aveva richiesto, avrei emesso un ordine scritto, con le migliori (e più convenienti) condizioni di pagamento. Non più tutto “cash” ma rimesse a 30, 60 e anche 90 giorni data fattura (possibilmente – fine mese-), a seconda degli importi delle fatture, e della continuità di rapporti coi fornitori.

A chi mi obiettava che si sarebbe perso troppo tempo, che ci sarebbe stata carta che girava inutilmente, che fino ad allora si era fatto così, rispondevo con il fatale mantra: “l’ha detto Carlo”, e tutti si adeguavano; anzi, in poco tempo si abituarono e furono anche contenti di sbarazzarsi di certe incombenze.

Quando Giovanni si trovò tra le mani i primi ordini, le prime bolle di consegna e le prime fatture non più da pagare sull’unghia, ma a 30, 60 gg. si fermò per la prima volta a parlare con me e mi chiese di avvisarlo prima di emettere ordini di un certo importo, sollecitandomi ad ottenere pagamenti ancor più lunghi…

Per la prima volta Giovanni aveva finalmente una traccia per un “piano pagamenti” e forse, per la prima volta cominciò a capire che cosa stavo facendo io – tra l’altro - alla Numero Uno.

Il fatto che fossi io a firmare gli ordini, data la sua natura accentratrice, e non lui, lo infastidì parecchio, perché cominciò a comprendere che una parte del suo fino ad allora indiscusso potere (che d’altra parte non aveva mai esercitato prima in quell’ambito) non era più sua. Se ne lamentò con Carlo, che, per non mortificarlo, mi chiamò, e presente Giovanni, mi chiese di lavorare a più stretto contatto con lui. Io mi dissi d’accordo, però malignamente sparai a freddo: -   “Però dividere le competenze per l’emissione degli ordini, non mi pare corretto… se Giovanni si firma un ordine per l’acquisto di uno scooter per sé, senza che lo veda io, e poi se lo paga perché la fattura arriva direttamente a lui… tu, Carlo, sei d’accordo?”

Di nuovo Carlo comprese che il meccanismo, per essere coerente, doveva funzionare solo in un certo modo, e non a metà, per cui tagliò corto e ripetette davanti a Giovanni che il responsabile degli acquisti ero io, e che lui si doveva limitare a fare il direttore amministrativo, controllando quello che facevo, ma senza interferire, e non era il caso che volesse assumersi altri incarichi, visto che si lamentava di non avere abbastanza tempo per fare tutto, voleva altri collaboratori, e lavorava sempre ben oltre  l’orario di chiusura.

Dopo quell’incontro a tre, ci fu ancora qualche sporadico tentativo di resistenza da parte di Giovanni che evidentemente non aveva apprezzato il mio intervento, ma quando vide che le cose stavano funzionando, e non gli creavo problemi, ma anzi gli facilitavo il lavoro, si allineò al “l’ha detto Carlo” ed in breve tempo tutto il sistema degli acquisti (che aumentavano esponenzialmente con l’ingrandirsi continuo della Numero Uno) andò a regime.

Giovanni fu anche generoso, perché, verificando che i conti delle officine per l’acquisto dei materiali erano drasticamente scesi, lo riferì a Carlo, che mi incitò a continuare su tutti i fronti. Probabilmente disse anche qualcosa a Giovanni sull’utilità di avermi assunto, ma questo non lo saprò mai.

La Wurth fu dapprima messa in concorrenza con altri fornitori che erano disponibili a fornire “una” chiave, e non “una serie” di chiavi, o cento dadi/bulloni/rondelle cromate alla volta, anziché cinquecento, e non più a prezzi da boutique, ma a prezzi di mercato, fino ad essere definitivamente estromessa quando dapprima allineò i suoi listini abbassandoli drasticamente, ma tentò poi qualche sotterfugio per aggirare le mie disposizioni sugli ordini.

Tutto andò avanti fino a che, nel Gennaio del 1992, parte del personale che lavorava a Milano, fu trasferito nei nuovi uffici di Arese, e Milano divenne la concessionaria “Numero Uno Milano S.r.l.” cliente della Numero Uno S.r.l. di Arese, importatrice delle moto Harley-Davidson.

Giovanni, impegnato non poco come direttore amministrativo delle due Società (ma lo era anche della Italiana Grandi Noleggi S.r.l., e lo stava diventando anche della Numero Tre S.r.l. per le Triumph, e più tardi della Gialloquaranta S.r.l. per le Rolls-Royce e Bentley) faceva la spola tra Milano ed Arese.

Negli uffici di Arese, nel reparto dedicato all’Amministrazione, ebbe una postazione che potrei definire “dominante”; la sua scrivania, notevolmente più ridotta di quella di Carlo (sulla quale si potevano disputare partite di calcetto, tanto era estesa), ma comunque notevolmente spaziosa, era situata su una piattaforma sopraelevata che dominava quelle dei suoi sottoposti amministrativi..

Probabilmente feci (ad alta voce) qualche commento – diciamo irridente e non propriamente benevolo sulla “location” occupata da Giovanni, che non apprezzò la cosa. Giovanni era dotato di scarso senso dell’umorismo ed era piuttosto permaloso, convinto che tutti tramassero alle sue spalle e sparlassero continuamente di lui. Questo non fece che aumentare la sua scarsa simpatia e la sua diffidenza nei miei confronti; diffidenza che si tramutò in insofferenza quando, per ragioni di riservatezza, Giovanni pretese da Carlo che la sua postazione fosse isolata dalle altre.

Carlo ne convenne (era giusto che se Giovanni doveva ricevere qualche funzionario di banca e discutere di argomenti delicati, non lo facesse con tutti che sentivano) e in quattro e quattr’otto gli fece costruire dal suo mobiliere di fiducia una barriera di legno pregiato, alta come la muraglia cinese, e spessa come il muro di Berlino, che lo isolava e trasformava il suo open space in Fort Apache, dal quale saliva verso il soffitto un perenne densa nuvola di fumo.

A Carlo il fumo dava fastidio, e non apprezzava che si fumasse negli uffici. Giovanni, che non poteva rinunciare alle sue sigarette e, per alleviare le conseguenze ambientali di questo vizietto, quando era presente, apriva le finestre, sperando di far uscire il fumo che produceva siccome ciminiera della Falck di Sesto (san Giovanni).  Ma, essendo l’ambiente di Arese climatizzato, si verificava solitamente l’effetto contrario: aprendo le finestre otteneva che l’inverno entrasse negli uffici aria gelida, e l’estate aria calda. Inoltre Carlo non sopportava che ci fossero finestre aperte che potessero rovinare la simmetria esterna dei suoi uffici, ai quali teneva tantissimo. E quando vedeva qualche finestra aperta, la faceva immediatamente chiudere.

Ci fu qualche battibecco, corroborato dal fatto che feci notare a Giovanni che la sua barriera architettonica, costruita per isolarlo, costava un occhio della testa (Carlo, quando si trattava di arredare i suoi uffici non badava a spese) ed aveva tolto luce a tutti gli impiegati dell’amministrazione costretti a lavorare sempre con le luci accese. Era vero, e dopo un po’ se ne accorse anche Carlo, che richiamò i falegnami che avevano posizionato quella muraglia impenetrabile e gliela fece segare (con ulteriori costi aggiuntivi) ad un’altezza meno impressionante (circa un metro e venti rispetto ai quasi due metri originali) riportando Giovanni alla vista di tutti.

Non so se fosse stata questa situazione o altro a rinfocolare la scarsa simpatia che Giovanni nutriva nei miei confronti, ma i nostri rapporti non migliorarono certamente anche ad Arese. Eravamo un po’ due galli nel pollaio, e non perdevamo occasione per scambiarci - in maniera anche infantile - qualche beccata. Quando le cose superavano il livello di guardia, Carlo interveniva, dando una bastonatina ad una cresta o all’altra, tanto per non far torto a nessuno.

Ci eravamo trasferiti non da molto ad Arese che subimmo un paio di furti; la qual cosa motivò Carlo a non frequentare più Arese di notte, nonostante avesse inserito nel suo ufficio, nel controsoffitto, una specie di garçonnière. Il comprensorio dove c’erano i nostri capannoni era veramente isolato, e non era escluso che di notte si potessero fare brutti incontri.

La prima volta il “ladri” si diressero direttamente negli uffici dell’Amministrazione e spazzolarono una mazzetta di assegni ed un po’ di contante. Erano questi assegni l’importo che i concessionari ci lasciavano a garanzia del pagamento delle moto, quando le venivano a prelevare presso il magazzino di Arese (o le ricevevano via corriere). L’assegno, senza data, sarebbe stato incassato quando il concessionario, venduta la moto, avesse avuto necessità di disporre del certificato di conformità, con il quale poteva procedere  all’immatricolazione della moto per il suo cliente. Farsi rilasciare assegni senza data, senza emettere fatture, non era una cosa perfettamente legale, ma era una prassi ampiamente utilizzata nell’ambiente motociclistico, e credo sia consuetudine diffusa ancora oggi.

Giovanni e Roberto conservavano la mazzetta di questi assegni in un cassetto di una scrivania. Non fu neppure necessario scassinarlo, bastò aprirlo e prelevarne il contenuto.  Per fortuna gli assegni non potevano essere incassati, essendo intestati alla Numero Uno, e furono tutti bloccati tempestivamente. L’episodio non poteva comunque essere ignorato: un furto è un furto, e anche se non fu fatta denuncia (che cosa denunciavamo? furto di assegni che non avremmo dovuto avere?), decidemmo di dotare l’amministrazione almeno di una cassaforte in cui custodire gli incassi, i certificati di conformità delle moto ed altri documenti sensibili.

Carlo fece una robusta lavata di capo a Giovanni e Roberto per la loro superficialità, e la cosa finì lì.

Ma ci fu dopo qualche mese dopo un secondo e ben più grave furto. Una notte, i “soliti ignoti”, scassinando una finestra, entrarono nel magazzino e caricato il nostro camioncino (che tenevamo parcheggiato all’interno) di una gran quantità di abbigliamento e accessori, se ne andarono con un bottino assai consistente. Il bottino era costituito per la maggior parte di giacche di pelle Harley, che erano di grande valore.

Anche in questo caso il danno, coperto da assicurazione, fu limitato, ma la cosa mise in crisi per parecchio tempo i rifornimenti di abbigliamento alle concessionarie, fino a che non si ristabilì l’assortimento dei capi rubati, e ricordo che Valter (Beccari) smadonnò per un paio di mesi spulciando fatture e tabulati per poter presentare all’assicurazione l’elenco di tutti gli articoli rubati corredato del valore di acquisto di ogni singolo pezzo.

Dopo una settimana dal furto, il camioncino fu ritrovato (naturalmente vuoto) dalla parte opposta di Milano, nei pressi del cimitero di Lambrate, e furono anche elaborate alcune ipotesi su chi avesse potuto compiere il furto, ricostruendo certi episodi che avevano coinvolto un dipendente con cognome slavo, che era stato licenziato poco dopo essere stato assunto, perché ritenuto non adatto alle nostre esigenze.

I Carabinieri di Arese, forse stimolati dalla notorietà del marchio Harley-Davidson si diedero parecchio da fare ad indagare, setacciando i numerosi insediamenti di nomadi che stazionavano tra Bollate, Arese e la zona dove era situato il nostro capannone, alla ricerca di qualche riscontro, e pure Mauro (Rivoltella) che aveva (ed ha) contatti ovunque mise in allarme tutte le sue conoscenze: senza successo. Quindi dopo un po’ ci rassegnammo e smettemmo di agitarci, riconoscendo però che era troppo facile entrare nel magazzino e negli uffici di Arese.

Conseguenza di questa seconda scorreria ladresca fu che, anche su sollecitazione della nostra assicurazione, installammo a protezione del nostro insediamento un impianto antifurto, munito di tutti i più sofisticati apparati. Questo impianto funzionò bene, al punto che sventò un altro paio di tentativi di intrusione. Il problema furti si potette dire, per fortuna, risolto.

Ma torniamo a Giovanni, col quale i miei rapporti non miglioravano.

Giovanni, per seguire i gravosi pagamenti dei container di moto che l’Harley ci inviava, aveva bisogno di un flusso di cassa il più possibile costante, che gli permettesse di estinguere i diversi finanziamenti che accendeva con le banche con le quali lavoravamo.
L’ho già accennato quando ho scritto di Roberto Fasolini, ma, la vendita delle moto è essenzialmente stagionale: inizia ai primi tepori primaverili per concludersi all’inizio delle vacanze estive.

Harley-Davidson presentava i nuovi modelli alle convention dei vari importatori all’inizio dell’anno, e cominciava a consegnarli da Agosto in poi. Il nostro magazzino, scaricato di moto alla fine di luglio, cominciava a riempirsi nuovamente di casse e casse di moto da Settembre in poi, giusto per la loro esposizione al salone del Ciclo e Motociclo, e proseguiva senza sosta per tutti i mesi seguenti.

Se la stagione autunnale era favorevole, si riusciva a vendere ancora qualche motocicletta, ma, se iniziava il brutto tempo, le moto restavano esposte in vetrina, dove i clienti correvano ad ammirarle, magari anche a prenotarle, ma la consegna doveva essere tassativamente dopo l’inizio dell’anno, perché una moto immatricolata il 31 Dicembre era più “vecchia” di un anno rispetto ad un’altra immatricolata il 2 gennaio.

Le poche moto che riuscivamo a vendere in Autunno erano le più richieste: Sporster e Softail. Ma indovinate che cosa ci spediva preferibilmente l’Harley-Davidson da Settembre a Gennaio/Febbraio? Per lo più ricevevamo Ultra e Dina, modelli di alto valore e meno vendibili.

In questi mesi il colore sempre grigio della faccia di Giovanni assumeva toni via via più cupi, perché era il periodo in cui doveva tener buone le banche: il flusso di cassa era ridottissimo e le spese sempre più alte. Solo ai primi soli, quando poteva finalmente incassare i famosi assegni di cui ho parlato più sopra, Giovanni riprendeva un colorito più accettabile.

Ma i mesi invernali erano per Giovanni mesi di sofferenza e tensione, e per questo aveva tutta la mia solidarietà.

A questo proposito, voglio inserire nel racconto un episodio che definirei “storico” nella vita della Numero Uno; forse qualcuno dei lettori lo ricorderà: si tratta dell’operazione “Pulizie di Natale”, avvenuto, alla fine del 1996.

Credo che tutti sappiano che quando Carlo ed i suoi soci (Max Brun e Roberto Crepaldi) richiesero la licenza di importazione delle Harley-Davidson, subentrarono alla MV-Agusta, precedente importatrice. I Fratelli Castiglioni che avevano acquistato la MVAgusta, stavano lanciando la loro nuova casa motociclistica CAGIVA e quindi non erano più interessati alle Harley. Nelle trattative per il passaggio non so se l’Harley stessa, o i Castiglioni, pretesero che la Numero Uno rilevasse lo stock di ricambi e accessori in dotazione che la MV-Agusta-CAGIVA utilizzava per l’assistenza alle poche moto allora in circolazione.

Si trattava di una massa di ferraglia polverosa e scarsamente utilizzabile, perché la Numero Uno aveva iniziato ad assistere i suoi clienti con i modelli Harley venduti dal 1984 in poi, e non aveva certo molto interesse ad imbarcarsi nelle riparazioni di moto più antiche.

Questi ricambi furono stoccati per anni a Milano, e poi traferiti alla rinfusa ad Arese, dove occasionalmente e pazientemente si cercava qualche pezzo richiesto da amatori. Tutta questa ferraglia occupava spazio e gravava finanziariamente sul valore di magazzino, ma non era mai stato veramente affrontato il problema di  che farsene (leggi: come sbarazzarsene).

Gli unici che potevano essere veramente interessati a quella roba erano i così detti “paralleli”, cioè quelle officine meccaniche esterne alla rete Numero Uno che trafficavano con le vecchie Harley, spesso di dubbia provenienza - (importate soprattutto dalla Germania) e che Carlo vedeva come fumo negli occhi, e ai quali non vendeva i nostri ricambi, destinati solo alle moto ufficiali che commercializzava la Numero Uno.

D’altra parte, se volevamo affrontare una volta per tutte il problema di quei resti di magazzino, dovevamo piegarci ad uscire dai rigidi schemi previsti dalla politica di vendita di Carlo. Gli suggerii di fare una vera e propria liquidazione del magazzino, a prezzi di realizzo per chiunque fosse interessato. Carlo inizialmente non fu d’accordo, perché “svendere” per lui era una bestemmia, ma finalmente, all’idea di “monetizzare” quel mucchio di roba inservibile ed ingombrante, cominciò ad elaborare qualcosa che potesse dare il risultato sperato.

Fece catalogare e prezzare tutta quella massa di ricambi ed accessori, e, nell’entusiasmo (Carlo a volte faceva un mucchio di resistenze per far qualcosa, ma quando si innamorava di un’idea, non lo tratteneva più nessuno) aggiunse anche tutti i resti di abbigliamento Harley e cianfrusaglie varie che ormai nessuno dei clienti di Milano comprava, e lanciò l’operazione “Pulizie di Natale”.

Senza mettere in grande evidenza il marchio Harley-Davidson, fece pubblicare diverse inserzioni in cui si annunciava che il giorno … presso il magazzino situato in via delle Industrie… ad Arese, ci sarebbe stata una grande (s)vendita di P&A originali Harley-Davidson.  Utilizzò per questa pubblicità quelle che lui chiamava “rivistacce” come Freeway, Custom Moto, ecc. che strizzavano l’occhio più al mondo Harley trucido dei paralleli che non al mondo Harley patinato della Numero Uno. Chi era interessato, avrebbe capito al volo di che cosa si trattava, ed il nostro centralino cominciò ad essere subissato di telefonate da gente che si diceva interessata a quella vendita e chiedeva informazioni.

Allestimmo nel magazzino allora anonimo della Gialloquaranta, posto davanti ai capannoni Numero Uno e Numero Tre una serie di banchi tutti collegati tra loro, su cui disponemmo tutto quanto era in vendita; attorno al quadrilatero formato dai banchi gli acquirenti avrebbero potuto girare, vedere, toccare e prendere. Quando tutto fu pronto, ci sorse la domanda: “chi vende? come effettuiamo la vendita?”

Avevamo impostato una splendida operazione commerciale e ci eravamo dimenticati di questo non trascurabile particolare; ci eravamo dimenticati di coinvolgere Giovanni, l’unico che era in grado di darci una risposta.

Quando Giovanni fu informato di tutto quello che avevamo preparato senza consultarlo, si incazzò (giustamente) e cominciò a prospettarci una serie di difficoltà insormontabili.  La questione, non ricordo bene come fosse, ma si può riassumere in questi termini: la vendita che avremmo effettuato sarebbe stata una vendita al dettaglio, ma essendo la merce in carico alla Numero Uno S.r.l., questa non poteva emettere scontrini fiscali. D’altra parte sarebbe stato pressoché impossibile ritrasferire tutta la mercanzia alla Numero Uno Milano che però poteva vendere al dettaglio ed emettere scontrini fiscali. Ma la sede della Numero Uno Milano era Milano e non Arese… Vendere in nero, senza emettere nessun documento fiscale era impensabile: la Numero Uno non faceva assolutamente operazioni in nero. Insomma un pasticcio.  Giovanni aveva una paura matta di commettere qualche errore che comportasse multe o sanzioni da parte della Finanza, ma ormai tutto era pronto, e Carlo, spazientito per tutte le lamentele di Giovanni, troncò il discorso dicendo:

        - Giovanni, l’operazione Pulizie di Natale si farà: io ti pago per trovare soluzioni ai problemi che creo: trova una qualunque
        soluzione a questo problema, ma fai in modo che non vada tutto a puttane!

E Giovanni la soluzione la trovò. Con Roberto e Maurizio posizionarono dove si effettuava la vendita terminali per scaricare dal magazzino ogni singolo articolo venduto, e per ogni articolo, o più articoli venduti allo stesso soggetto, veniva emessa bolla di consegna e relativa fattura. Naturalmente ogni soggetto doveva darci tutti i suoi dati, la sua partita Iva o il suo codice fiscale…

Non era un capolavoro di semplificazione, ma funzionò. Una volta che il cliente aveva in mano la sua fattura per la merce acquistata, passava alla cassa (se non ricordo male tenuta da Elena), pagava e se ne poteva andare.

E venne il giorno. L’apertura del capannone era fisata alle 9 del mattino. Quando arrivai ad Arese non credevo ai miei occhi: ai cancelli c’era una folla indescrivibile. Ci aspettavamo poche decine di persone, qualche parallelo e qualche appassionato Harley in cerca di pezzi a buon mercato, e c’erano invece centinaia di persone in fermento, quasi ai nastri di partenza per una maratona cittadina in attesa del segnale di via. All’apertura del capannone fu un delirio: fummo travolti da una massa di assatanati che si gettarono sui banchi per accaparrarsi i pezzi migliori. Meno male che c’era di rinforzo anche personale precettato da Milano (ricordo Lamberto e Marzia), perché da soli non saremmo stati in grado di reggere all’onda d’urto di  tutta quella gente.

La cosa bella era che quasi tutti se ne andarono contenti di aver ricuperato qualcosa, chi una forcella, chi un vecchio serbatoio, chi una ruota, chi un parafango, chi un pistone, chi un cilindro, chi un copri filtro, chi un ricambio introvabile: tutta roba che aveva preso polvere per anni e che in quel momento risorgeva a nuova vita. Per tutta la giornata fu un susseguirsi ininterrotto di clienti e curiosi, e quasi tutti si portarono via qualcosa. L’unico punto critico fu il collo di bottiglia creato dalla zona di bollettazione e fatturazione, che non riusciva ad assorbire e smaltire il flusso di chi aveva trovato quello che cercava e voleva andarsene. Ci furono lunghe attese, con qualche critica ad alta voce: “Ma guarda quelli della Numero Uno, che sono sempre così perfettini e vogliono insegnare il lavoro agli altri…” dei più impazienti, ma alla fine tutto procedette benissimo, ed al termine della giornata, alle 19 quando chiudemmo il portone, senza neppure una pausa per il pranzo, sui banchi era rimasto ben poco. L’orda delle cavallette si era divorata la nostra “zavorra”, facendo sparire anche gli articoli di abbigliamento più tamarri che si potesse immaginare.

Quando, esausti, ci trasferimmo negli uffici ed aprimmo la cassa per contabilizzare il risultato di quella giornata stupefacente, quasi non credevamo ai nostri occhi: tra assegni e contanti c’erano più di centoventi milioni di lire, che il Lunedì mattina Giovanni avrebbe potuto depositare nelle banche più ansiose sulle fortune della nostra società.

In tutta la giornata Carlo guardò bene dal farsi vedere, (lui si giustificò poi dicendo che non voleva incontrare i paralleli e che non voleva entrare in discussione con quelli), e fu un bene, perché se fosse venuto, avrebbe cominciato a voler mettere il becco in quello che stavamo facendo, e allora le file si sarebbero raddoppiate.

L’anno successivo fu effettuata una seconda tornata coi rimasugli delle Pulizie di Natale, definita “Pulizie di Pasqua“ che andò ancora bene, ma in scala assai più ridotta della prima. In ogni caso il problema di quei residuati storici fu pressoché risolto.

Riprendo il racconto che si intreccia coi ricordi dei miei rapporti con Giovanni.

Consapevole che non si poteva andare avanti sempre fronteggiandosi, decisi che era il caso di provare a rovesciare il tavolo e tentare un approccio più amichevole.  Colto da improvvisa folgorazione, una sera che ci incrociammo sul portone d’uscita dopo che entrambi ci eravamo attardati in ufficio, lo invitai a cena a casa mia. Io vivevo da solo; per quanto ne sapevo neppure Giovanni aveva una famiglia a Milano: quale migliore occasione, davanti ad un piatto caldo ed un bicchier di vino, di sciogliere le nostre asperità reciproche?

Dopo qualche esitazione, accettò e mi segui con la sua auto dietro la mia fino a San Felice, dove abitavo.

Di cosa parlammo quella sera, non saprei proprio dire; ricordo che ad ogni mio tentativo di iniziare una discussione su un argomento di interesse comune, Giovanni mi gelava con un: - Se tu sapessi… se tu sapessi… - come non volesse rivelarmi il terzo segreto di Fatima. Quindi, alla fine “non seppi mai”, perché non riuscii a scucirgli nessuna confidenza. Si spazzolò la cena che avevo preparato, ma l’unica cosa che ottenni, oltre al consueto comportamento scostante il giorno dopo e nei giorni a seguire in ufficio, fu che per una settimana casa mia tanfava di fumo come un altoforno.

Tra me e lui esisteva un approccio completamente diverso sul modo di concepire il lavoro: lui aveva una mentalità da ragioniere, abituato a pensare per partite doppie, dove ciò che sta a destra deve corrispondere al centesimo a quello che sta a sinistra. Io ero molto più empirico, e mi accontentavo di ottenere risultati approssimati in maniera sempre più veloce, economica e soprattutto pratica. Stavamo aumentando la consistenza della rete di vendita, incrementando il numero delle moto vendute, il volume della rotazione di P&A, oltre alla creazione della Numero Tre con le sue filiali a Milano, Firenze e Roma, stavamo entrando nell’avventura della Gialloquaranta, ed i problemi logistici che si presentavano a tamburo battente erano sempre diversi e andavano risolti al più presto, per tener dietro alla frenetica attività di Carlo.

Giovanni era alla perenne ricerca del sistema informatico perfetto che gli consentisse di avere tutto, ma proprio tutto, sotto controllo.

Io avevo a che fare con Carlo che, non sapendo che altro fare, si recava magari in magazzino la domenica, si caricava sul camion quattro moto – a volte già destinate a concessionari che le avevano vendute – e se le scaricava due alla Numero Uno di Firenze e due alla Numero Uno di Roma per rinnovare le vetrine. Il tutto senza uno straccio di bolla o senza un foglietto che mi avvisasse che le moto le aveva prese lui.  Giovanni aveva le sue grane con le banche ed i pagamenti, io dovevo fare in modo che Carlo, per prelevare una singola moto, non mi sdoganasse, senza avvertirmi, un intero container, facendomene arrivare contemporaneamente due dozzine in magazzino… e in più dovevo fronteggiare le mille richieste dei concessionari senza possibilmente favorirne o sfavorirne alcuno.

È per questo che nei miei rapporti a Carlo avevo definito Giovanni un vero “bolscevico”, anche per il tipo di disciplina da gulag che pretendeva dai suoi impiegati: a lui piacevano i piani quinquennali (che non si realizzavano mai), io preferivo operare su cose più estemporanee, ed in questo ero più vicino alle posizioni di Carlo.

E venne il 1985. Carlo fu invitato da George Vopal, l’account che teneva i contatti commerciali tra Harley-Davidson e Numero Uno ad andare in Australia per una grande convention alla quale partecipavano tutti gli importatori Harley del mondo per una settimana. Ringraziò, ma disse che avrebbe mandato, se George era d’accordo, a sue spese, alcuni suoi collaboratori in sua rappresentanza.

George Vopal acconsentì entusiasta (finalmente la Numero Uno non era più rappresentata solo da Carlo) e Carlo formò la squadra che avrebbe mandato in Australia: designò me, Giovanni, Alberto (Poggi), Maurizio (Meroni), Lamberto (Cattaneo) da Milano e Fabrizio (Farinelli) da Roma. Era una specie di “viaggio premio” per gli uomini di punta del suo staff, e desiderava che aumentasse tra noi l’affiatamento e la collaborazione. Queste ultime sollecitazioni erano particolarmente indirizzate, per chi non l’avesse capito, a me e Giovanni.

Devo dire che quel viaggio in Australia è stato per me (e credo anche per i miei colleghi) un’esperienza memorabile. Nella sede della convention, Sidney, organizzata senza economie e con grandi manifestazioni dall’Harley-Davidson, trascorremmo una settimana indimenticabile; ma anche agli antipodi, Giovanni ed io riuscimmo a litigare.




Giovanni è il primo a sinistra








Marco e Giovanni



Da italiano (o bergamasco) classico, per il quale la cucina internazionale è per definizione immangiabile (ad onore del vero, secondo me, mangiammo sempre benissimo) la sera che fu libera da impegni comuni, Giovanni la volle dedicare alla ricerca di un ristorante italiano, e pretese che ci andassimo tutti, per mangiare “finalmente come si deve” ...

Io, che per principio, trovandomi all’estero, non vado assolutamente in un ristorante italiano, rifiutai e proposi di cercare qualche posto caratteristico esotico: magari avremmo mangiato qualche porcata, ma sarebbe stata un’esperienza nuova, invece di gustare “macaroni alla bolognese” scotti o pseudolasagne condite col parmisan e conserva di pomodoro, o una pizza col salame e gli hamburger.

Giovanni si adombrò per questa mia presa di posizione e la considerò quasi un affronto personale (evidentemente si era autonominato capo delegazione, pretendendo di comandarci secondo i suoi desideri) e finì che il gruppo si divise: Giovanni, Lamberto e Fabrizio (imbarazzato per dover prendere posizione su una motivazione così stupida) da una parte ed io, Maurizio e Alberto dall’altra.    

Il broncio di Giovanni proseguì nei giorni successivi, indirizzato al gruppo dei “ribelli”, ma, per fortuna, al termine della settimana rientrò a Milano con Maurizio e Lamberto, mentre io, Alberto e Fabrizio ci recammo a Fremantle, in Australia occidentale, ospiti del fratello di Fabrizio, che abitava là, e vi rimanemmo ancora per qualche giorno.

Ma torniamo in Italia.

Nel suo inarrestabile sviluppo, la Numero Uno aveva partorito la Numero Tre, che si doveva occupare dell’importazione e della vendita delle inglesi moto Triumph. Carlo, ligio alla promessa fatta all’Harley di mantenere le due importazioni separate, l’anno successivo al nostro arrivo ad Arese diede il via all’allestimento del secondo capannone, contiguo al primo, destinato ad ospitare il personale e le strutture che si sarebbe occupato della Triumph. Furono arredati nuovi uffici, predisposti scaffali per ospitare la casse delle moto, una piccola officina ed il magazzino ricambi ed accessori. In quello spazio, sovrabbondante per lo staff ancora ristretto della Numero Tre, fu spostata anche tutta l’amministrazione, e Giovanni finalmente ottenne un ufficio chiuso e tutto per sé, in cui poteva fumare senza intossicare nessuno, ed avere tutta la privacy che desiderava. A titolo di cronaca a me venne riassegnata la sua postazione sopraelevata (senza muro divisorio)

Per il suo nuovo ufficio, per aumentare la privacy, pretese che gli facessi cambiare i vetri della porta: non li voleva trasparenti, ma fumé. Con gioia lo accontentai. Così non ci vedevamo quando passavo di lì.

Nella stagione 1994-95 le vendite delle moto non furono proprio quelle desiderate. Non ricordo se fu un periodo di crisi generale, o la stagione metereologica fu particolarmente sfavorevole. Fatto sta che a Maggio mandai i primi segnali a Carlo di fare qualcosa, perché ci sarebbero rimaste in magazzino troppe moto invendute. Nonostante questo, a fine stagione Carlo fece incetta di tutte le moto invendute che gli altri importatori europei mettevano a disposizione per svuotarsi i magazzini. Gli altri svuotavano i loro e noi riempivamo i nostri! Continuai ad ammonire Carlo sul terribile rischio che correvamo; secondo i miei calcoli avremmo finito la stagione con 500 moto invendute, una enormità, e da Agosto ci sarebbero piombate in magazzino tutte quelle del nuovo “model year”, un altro migliaio di motociclette che, avremmo cominciato a vendere solo dalla primavera successiva! Alla chiusura per le vacanze contai 505 moto: grosso modo un miliardo di valore fermo in magazzino. Da Giovanni nessuna reazione.

Del periodo post-australiano tra me e Giovanni ci fu solo un episodio assai sgradevole che ricordo ancora con angoscia e rammarico; eravamo all’inizio del turno pomeridiano di una qualunque giornata di lavoro, e dopo la pausa pranzo, ci stavamo recando alle nostre postazioni. Casualmente, nel corridoio dell’amministrazione, ci incrociammo Carlo, Giovanni ed io.

All’improvviso Giovanni sbottò gridando verso di me, ed accusandomi di voler comandare in Numero Uno e lanciando altre accuse che lasciarono tutti stupiti ed interdetti, me per primo, che non mi aspettavo assolutamente un simile attacco.

Tutti assistevano alla scena senza sapere che fare, e l’unica cosa che ricordo di aver detto fu: “Giovanni, guarda che ti sbagli… che cosa devo comandare?” ripetuto diverse volte, senza che Giovanni smettesse di inveire.

Fu Carlo, anche lui spiazzato e sorpreso da quella inattesa ed inaspettata sceneggiata, che si mise in mezzo a noi ed invitò perentoriamente Giovanni a smettere:

        - Giovanni, se hai qualche cosa contro Marco, vieni nel mio ufficio e spiegamelo. Non tollero piazzate di questo genere qui,
        davanti a tutti.

E dato che Giovanni non sembrava volersi frenare gli si parò davanti gridandogli:

        - Giovanni, adesso basta! – e mi prese sotto il braccio trascinandomi via, mentre tutti i colleghi cii guardavano esterrefatti.  

Fu l’ultimo episodio, credo, che mi contrappose a Giovanni. Non so se Carlo poi gli parlò o meno; so solo che Giovanni, ogni volta che mi vedeva, mi evitava come se fossi un monatto, ed usava Roberto per chiedermi qualunque cosa di cui avesse bisogno da me.

Dicevo che fu l’ultimo, e l’anno trascorse febbrilmente in piena espansione: cominciavamo a far ruotare un paio di migliaia di Harley ed un migliaio di Triumph, oltre ad alcune decine di Rolls e Bentley.

Ma ci fu una clamorosa sorpresa, perché, al ritorno dalle ferie, che io facevo dopo gli altri ai primi di Settembre, appena tornato in ufficio, Carlo mi convocò nel suo dove era con Enrica (la sua segretaria) e mi annunciò che Giovanni non c’era più: aveva dato le dimissioni e se ne era andato senza fare alcun preavviso!

Divertito gli chiesi se per caso era scappato con la cassa. Di solito chi la controlla, fa così. Per fortuna no, ma si vedeva che Carlo era preoccupatissimo e col morale a terra, perché non sapeva che fare. Giovanni era veramente una risorsa per Carlo e per le nostre società.

Mi venne in mente che forse Giovanni non aveva retto alla tensione di trovarsi a dover gestire a breve debiti per miliardi ed aveva preferito dare forfait e fuggire dalla nave che, secondo lui, stava affondando; espressi questo pensiero irridente ad alta voce, e Carlo, già teso per il colpo della mancanza di Giovanni, divenne furioso. Dovevo aver colto nel segno, perché mi scacciò in malo modo, dicendomi che si aspettava da me un aiuto, e non una nuova pugnalata alle spalle.

Io veramente, colto alla sorpresa, lontano mille miglia dai problemi amministrativi e forse ancora sotto l’effetto vacanze, non sapevo dargli nessun suggerimento per la sostituzione di Giovanni, e mi resi conto subito dopo che avrei fatto meglio a stare zitto. Ma ormai la frittata (che avrei pagato piuttosto cara nei mesi successivi) era stata fatta.

Questo apparentemente insolubile problema che ci era capitato tra capo e collo come un meteorite, si risolse per fortuna nella stessa mattinata. Non sapendo da che parte cominciare, Carlo chiamò Roberto, uomo ombra di Giovanni per tutti quegli anni e gli chiese se la sentiva di dargli una mano.

Roberto rispose che era in grado di fare tutto quello che fino ad allora aveva fatto Giovanni, e la storia di Roberto che da allora assunse la carica di responsabile amministrativo e finanziario, l’ho raccontata altrove: non solo lo sostituì senza nessun intoppo, ma anzi, in breve prese in mano tutta l’amministrazione con tale perizia e sagacia che nessuno rimpianse Giovanni, a partire da Carlo, che in Roberto trovò il più fidato collaboratore ed amico. Finché visse.

Ma, dove era finito Giovanni, sparito dalla circolazione come se l’avessero rapito gli alieni?

Cose da non credere: Giovanni era entrato in seminario per farsi prete! Quando lo seppi mi scappò da ridere: se avessi dovuto scrivere una storia con Giovanni protagonista, non avrei mai pensato ad una conclusione così inaspettata.

Ma, come ben sappiamo, spesso la realtà supera di gran lungo la fantasia.

Se lo incontrassi in questa sua nuova veste, gli potrei, secondo voi, chiedere la benedizione?



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